martedì 14 agosto 2012

La morte a Venezia?


“C’è una nuova moda tra i potenti”, ha scritto Salvatore Settis il 31 luglio su Repubblica: “profanare Venezia”. Il profilo urbano descrive l’andamento dei conflitti che determinano l’esistenza di una città. I processi di appropriazione della città come spazio simbolico, secondo l’accusa di Settis, stanno producendo a Venezia lacerazioni violente e prepotenti discontinuità, affermando la sopraffazione del presente, e delle sue esigenze meno lungimiranti, sul passato e sulla profondità storica. Venezia viene oltraggiata dalle enormi navi che si insinuano nella laguna a beneficio dei turisti. Il Fondaco dei Tedeschi, acquistato da Benetton, viene stravolto non tanto nella sua destinazione (commerciale da secoli), ma nel significato della sua architettura: Rem Koolhas, architetto incaricato della ristrutturazione, forza programmaticamente il contesto per affermare l’emergenza del moderno. Infine, il progetto dell’imprenditore Pierre Cardin per Marghera: un Palais Lumière alto 250 metri, per una superficie totale di 175.000 metri quadrati, tre torri intrecciate per 60 piani abitabili, destinato a ospitare un’università della moda, e poi alberghi, ristoranti, appartamenti, centri congressi, impianti sportivi. Una torre babelica, secondo Settis, che sovrasterebbe di 140 metri il campanile di San Marco, incidendo violentemente lo skyline della città.
A Settis non sfugge l’opportunità, implicita nel progetto, di risanare un’area industriale disagiata e dismessa, eppure si chiede perché le amministrazioni non accordino la priorità a disegni meno invasivi. Rispondendosi apoditticamente: “in tutti questi casi, oltraggiare Venezia non è una conseguenza non prevista, ma il cuore del progetto.” È una violazione simbolica, un’affermazione della potenza del contemporaneo e delle sue capacità di rottura. Un’umiliazione che il presente vuole infliggere al passato. Un ricatto che l’economia impone alla politica, al pubblico e ai suoi vincoli di legalità, assecondando un processo di privatizzazione della città in cui emergono gli istinti anarchici e antisociali del tardo capitalismo.  


Una recente tentazione dell’altezza sembra attraversare l’Italia, terra di campanili che non hanno ancora fatto posto ai grattacieli. Torino, Milano, Bologna, Savona, Venezia: un rincorrersi verticale che riproduce la corsa medievale alla rappresentazione del potere attraverso le torri. Nel Novecento la vertigine verticale ha guidato l’architettura all’inizio e alla fine del secolo, dicendo il sogno di dismisura del capitalismo e la sua vocazione fallica. Il trauma dell’11 settembre e i dissesti economici coi quali si è aperto il nuovo millennio sembravano suggerire un ripensamento in senso orizzontale degli spazi e dell’organizzazione sociale. Ma gli “strattoni” prodotti dal capitalismo per uscire da una delle sue involuzioni di sistema passano forse anche attraverso uno slancio verticale, una nuova affermazione d’altezza che respinge in basso le richieste di riforme strutturali.

Del resto, ammonisce Luca Nannipieri, non c’è trasformazione possibile senza infrangere i vincoli dell’esistente. Non c’è futuro senza fluidificazione del presente, e riscrittura del passato. Gli allarmi dei conservatori sono azioni “a difesa di tutto quello che è e che tale deve restare”. Politiche di “opprimente e deprimente” tutela che finiscono per mummificare l’Italia. “Da sempre le città sono realtà trasformate e da trasformare. Da sempre i loro confini, le loro identità, le loro mura, i loro palazzi, i loro perimetri sono stati ridiscussi, abbattuti, ritrascritti, riveduti, perché non esiste una conservazione che si antepone alla vita, se non a patto di sopprimerla, di renderla irrespirabile, appunto mummificata. Le bellezze sono da sempre bellezze contese, comprate, vendute, contrattualizzate, oggetto di affari, profitti, guadagni, perché dove non ci sono guadagni e profitti non c’è attività umana.”
Ogni città modifica continuamente il proprio presente, ridefinendo le forme che lo descrivono. Bloccare questo processo significa svuotare le città del proprio significato, separarle dal flusso dell’attività umana. “Tutte le piú grandi città sono diventate piú affascinanti e moderne dopo che vi sono state costruite opere disturbanti, che rompevano la visione ormai acquisita degli spazi.” La ridefinizione attiva degli spazi urbani passa anche attraverso la loro improvvisa, spesso violenta, “profanazione”. Che è profonazione soltanto del nostro “eccesso di quiete nella comprensione del passato e del presente”.


La sostenibilità degli interventi architettonici è una contrattazione sul confine instabile tra esigenze di tutela e necessità di rinnovamento. “Spesso l’architettura che fa pensare rinuncia a costruire”, dice Gianni Pettena, artista “architettonico” che riflette sul nesso tra sostenibilità e reversibilità degli interventi. Non sempre la reversibilità coincide con la sostenibilità. L’arte è spesso irreversibile in quanto si inserisce in “un contesto che viene visivamente modificato e concettualmente sviluppato”. Senza modificazione visiva e sviluppo concettuale non si dà intervento artistico. “Non è solamente importante la conservazione del contesto, ma anche la traccia della sua modifica attraverso l’accentuazione della qualità dell’esistente.” Con la sua opera Ice house I Pettena ha congelato un edificio scolastico dismesso, creando una metafora della sostenibilità architettonica, sperimentando un intervento capace di modificare, e rivitalizzare, senza stravolgere destinazioni e significati. “La sostenibilità non dice mai di no”: cerca invece di affermare, “attraverso il coinvolgimento di critici e di competenze collettive”, la possibilità degli uomini di incidere “il proprio segno nel mondo” senza distruggere o impoverire i contesti. 



Nessun commento:

Posta un commento