martedì 27 novembre 2012

L’Europa delle città: Amburgo

Fabien Kunz-Vitali

Questo testo fa parte di un’inchiesta collettiva su L’Europa delle città, prodotta in collaborazione con Il Bureau.


La città rintanata nel proprio passato (o: perché i poeti sono da preferire ai sovrintendenti all’edilizia).
In uno dei capitoli di Notre-Dame de Paris, notoriamente indigesti per il lettore curioso di come va a finire la storia, ma troppo breve per l’autore che infatti si scusa della sua schematicità, Hugo traccia un quadro storico dello sviluppo urbanistico di Parigi, dalle origini fino ai giorni della Restaurazione. Raccontando una storia di continuo declino, naturalmente. Dove splendeurs e beautés del passato, quello gotico in particolare, si presentano ormai solo in modo fugace, negli interstizi fra l’uno e l’altro edificio nuovo che deturpa l’aspetto generale, un tempo sublime, della città. Pur nel profluvio delle sue pagine enciclopediche, non sfugge la logica assai semplice secondo cui Hugo declina la storia dell’architettura di Parigi, del resto analoga a un suo atteggiamento scisso verso la Storia in generale: il passato era iniquo, ma bello – il progresso è giusto, ma brutto.

Ora, quando Hugo stava lassú, in cima alla sua vecchia cattedrale, a scrutare il vasto spazio di una città che sembrava non appartenergli piú, e che egli vedeva arretrare irrevocabilmente nel futuro, Parigi era ancora di là dall’assumere quell’aspetto e dal divenire quel luogo che oggi ci è familiare e che, piú o meno, ci affascina. Per cui non possiamo non sorridere delle sue profezie, in particolare, di una Parigi votata al progresso e, ipso facto, al regresso a spazio architettonicamente insignificante. A parte la questione del gusto, una realtà urbana recente come, mettiamo, la Défense (chissà quali batterie analogiche Hugo avrebbe mobilitato contro un progetto come questo) – conferma che è precisamente abiurando, con spontanea brutalità, all’idea della conservazione che Parigi oggi è ancora una Città. Vale a dire una meta costante di persone in cerca, non di musei, ma di una vita; un luogo che, come un organismo, è capace di trasformarsi, di reinventarsi, di inglobare il proprio passato e magari anche di reprimerlo (Freud ha paragonato le stratificazioni dell’apparato psichico alle stratificazioni urbane di una città come Roma). Ecco, non bisogna scomodare i futuristi per affermare che la conservazione, quando si fa principio, può andare bene per un posto come Lubecca, ma non vale per una Città.

Le idee che Hugo espresse a proposito dell’architettura parigina sono interessanti perché, fra l’altro, rinviano a problemi che oggi non sono privi d’attualità. Fra questi c’è anzitutto quello del patrimonio storico e di come proteggerlo affinché, rispetto alle esigenze e alle visioni del futuro, non diventi un semplice baluardo. Ma la domanda pare ancillare a un’altra: in una realtà che si dichiara democratica, in cui l’organizzazione della vita di una comunità, quindi anche l’edilizia, dovrebbe essere mediata da un consenso popolare, come regolare le questioni che riguardano evoluzione ed estetica urbana, soprattutto quando queste toccano dei punti nevralgici, i luoghi esposti e pertanto simbolici di una metropoli? Da quando non è piú un re illuminato a portare da solo la responsabilità di dare un volto alla città, chi ha il diritto e il dovere di decidere? Gli specialisti, certo. Ma a parte le questioni tecniche, per le questioni estetiche, gli specialisti chi sono? Gli starchitetti?

Amburgo, 2007: Herzog & De Meuron vincono l’appalto per la costruzione della Elbphilharmonie, gigantesco edificio navaloide che conterrà insieme sala concerti, albergo, luogo gastronomico, appartamenti privati, parcheggio, piattaforma panoramica... Soprattutto, per la sua posizione di rilievo, cioè sovrastando il porto e la cosiddetta Hafencity (nuova zona urbana che, conglobandoli, cresce attorno agli storici magazzini della Speicherstadt), ledificio è chiamato ad assumere funzione di nuovo simbolo della città, o meglio, di Amburgo che vuole essere Città.

Cosí ovviamente non la vede la gran parte della popolazione locale. Che non vi si riconosce. E qui comincia la nebbia. Chi decide cosa deve simboleggiare una città? Magari non il “popolo” se è vero, come lo è in questo caso, che le visioni per l’espansione urbanistica non si basano su un referendum. E non potrebbe essere diversamente se è vero, come ancora una volta lo è qui, che il popolo tende a rifiutare categoricamente progetti che incrementano e, per forza, alterano l’aspetto a lui familiare di una città. Ora, è chiaro, occorre distinguere. La difesa del vecchio contro il nuovo può avere motivazioni sacrosante, come quando porta a smascherare un falso progresso – per restare ad Amburgo, la protesta contro il sacrificio di un pezzo storico di Altona per la costruzione un punto vendita Ikea. O come quando muove da un disagio sociale facendosi disagio anche logico, almeno per chi dipende da Hartz IV (il programma pubblico di assistenza ai poveri: la povertà non è una prerogativa meridionale) e voglia provare a mettere in relazione i propri stenti con il fasto del tutto inaccessibile, a lui come ai piú, del nuovo “simbolo” della propria città.
Bene. Ma a voler rispettare le ragioni di ogni singolo cittadino (altra nebbia: chi è sufficientemente cittadino da poter far valere le proprie ragioni?) nella progettazione del futuro urbano, probabilmente, non ci sarebbe da costruire piú niente. Ciò ovviamente non significa che non si deve per lo meno cercare di coinvolgere tutti. E in questo senso, l’iniziativa che da quest’anno si sta sperimentando proprio ad Amburgo sotto il nome di Stadtwerkstatt, sorta di officina del dialogo sulla città che coinvolge cittadini, architetti e politici, è senz’altro interessantissima, degna forse della “città intelligente” che impegna il dibattito urbanistico internazionale – a meno di non volerla interpretare pessimisticamente come un sedativo. Solo, le voci cittadine raccolte in questo contesto parlano chiaro. Sono semplici variazioni sul tema del ubi sunt (ovvero si stava meglio quando si stava peggio): Quanto sono belli i vecchi depositi nel porto! Quanto doveva essere bella la città quando erano solo le prominenti chiese protestanti a disegnarne la silhouette! E infine: quanto tutto questo viene sfigurato dal nuovo... E quindi daccapo. Il popolo (un po’ come Hugo, e non a caso) può essere terribilmente conservatore. Non gradisce il nuovo, se non è strettamente in linea con il vecchio. Si indigna dell’estetica degli esempi statuiti da un potere nuovo, e si gongola per l’estetica degli esempi statuiti dal potere storico – di solito, senza nemmeno stare a immaginare il probabile disagio delle generazioni precedenti, a loro volta confrontate, assai meno democraticamente, con il “nuovo”. Insomma: quella bella silhouette storica che tanti vorrebbero poter scrutare senza imbattersi in oggetti estranei, è sempre stata cosí perfettamente armoniosa e “tipica” o piuttosto lo è diventata col tempo? E, ancora, dobbiamo proprio farci invisibili per non disturbarlo, nella sua grandezza e nel suo sublime, il passato? 

Sarebbe bello fare simili domande a Egbert Kossak, ex sovrintendente dello sviluppo edile di Amburgo e oggi portavoce fra i piú autorevoli della protesta contro il rinnovo architettonico della città. Non è che non siano spontaneamente comprensibili certe sue posizioni, come quando per esempio indica negli Event Manager, nei Vip mediatici e in altri venditori di frottole, i veri e completamente incompetenti responsabili dell’attuale sviluppo urbanistico. O quando definisce ignobili (“brutta porcheria”), costruzioni nuove tipo le Torri danzanti. Ma Kossak si mette a sparare a zero contro tutto. Non solo contro la Elbphilharmonie che per lui comunque è un “mostro completamente informe che spezza ogni ragionevole dimensione della città”, quasi i due architetti svizzeri si fossero scordati di usare il righello. Ma contro qualunque cosa interferisca con la sky-line su citata, cioè quella “silhouette costituita dalle sue cinque grandi chiese e con la casa comunale che rappresenta, da ormai 600 anni, l’identità di Amburgo”. Come dire, Amburgo non deve essere una Città, ma deve essere la città che è sempre stata. Deve stare rintanata nel proprio passato.

Nella combinatoria davvero eccezionale e affascinante (per chi osservi da fuori) dei pregiudizi che sembrano accompagnare la controversia, non solo sulla Elbphilharmonie, ma sull’evoluzione urbanistica di Amburgo in generale, gli argomenti del sovrintendente sono i piú rappresentativi. E anche i piú deludenti. Quasi la protezione della sostanza storica, in architettura come altrove, fosse stata il principio che ha reso Amburgo quella che è o che pretende di essere, cioè la “Porta del mondo”. Insomma, il passato è una bellissima cosa. Specie quando viene esaltato ad arte, come nei romanzi di Hugo. Che, invece di parlare come un sovrintendente privo di senso poetico, parlava da poeta con tanto di senso storico (“Ceci tuera cela”). E che, invece di auspicare come soluzione il restauro della vecchia sagoma della città, cioè, piú o meno, il ritorno al tardo Medioevo, si limitava a incoraggiare i suoi lettori a salire sulle torri di Notre-Dame de Paris e a immedesimarsi nella visuale “dei corvi del 1482”. Ecco: consigliamo agli amburghesi di salire sulla torre del loro adorato San Michele e di immaginare, anacronisticamente, la panoramica della città che avevano i gabbiani del 1482.

Nessun commento:

Posta un commento