martedì 29 gennaio 2013

Mitologie urbane. Il mito dell’Autorità

Tommaso Matano


Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.

I dibattiti televisivi offrono sempre spunti di riflessione, soprattutto i talk show politici. Spesso mettono in opera dei meccanismi del confronto che, mutatis mutandis, valgono per tanti fenomeni della società.
 
È degna di nota in tal senso una prassi portata avanti da certi esponenti di posizioni nette, ma in definitiva minoritarie. Di solito nei talk show gli analisti o i politici piú importanti vengono fatti parlare per primi e per piú tempo. Poi la parola passa, quasi in osservanza a una regola non scritta, a chi, fino a quel momento, è rimasto semplice uditore.
Il personaggio in questione, ora, ha due vantaggi. Intanto prende la parola a dibattito già impostato. Ciò significa che gli risulterà piú semplice far valere le sue obiezioni sulle osservazioni precedenti, che invece hanno dovuto, in qualche modo, costruire l’ossatura della discussione. Inoltre, parla per la prima volta, la qual cosa dovrebbe indurre negli ascoltatori un aumento dell’attenzione, poiché la sua è una voce nuova.
Spesso questo tipo di personaggio esordisce dicendo che ha ascoltato con molta attenzione ciò che è stato detto, oppure facendo una promessa di sinteticità. Cioè dichiara, in apertura, di aderire alle regole di quella discussione, di essere idoneo a farne parte. E in piú strizza l’occhio a chi lo sta seguendo: non solo è pronto a far parte di quel dibattito, ma lo farà in maniera eccellente, stringatamente e con puntualità.
A questo punto, dopo la breve e implicita sottoscrizione delle regole, il retore annuncia la sua verità. Lo fa con un tono profetico, che scuote, perché nell’istante in cui si dichiara parte di quella discussione denuncia il fatto che la discussione non ha motivo di esistere. Di solito con frasi tipo “Voi non vi rendete conto di quello che sta succedendo…” oppure “Stasera ho sentito parlare di tutto tranne che del vero problema…”, il nostro protagonista annuncia che ciò di cui si è discusso fino a quel momento non è il vero oggetto della discussione, perché il punto centrale è quello che sta per enunciare lui.
Il fatto notevole è che ciò che dirà il nostro personaggio, la sua rivelazione, non è importante. Ciò che conta è che abbia dichiarato che la verità è un’altra ed è quella che lui conosce, e non chi lo ha preceduto.
L’effetto sui termini del dibattito sembrerebbe scompaginante, ma le cose non stanno proprio cosí. Questo personaggio non entra mai nel merito della discussione, denuncia piuttosto un errore di metodo. Questa semplificazione e generalizzazione, assieme al tono sopra le righe, contribuisce a creare l’aura profetica attorno al personaggio, ma contiene in sé una controindicazione. Il tale, infatti, dopo aver detto che sta alle regole del dibattito, e che il dibattito non ha motivo di esistere, non riesce davvero a proporne un altro. Non riesce, cioè, a riorientare la discussione, a introdurre e veicolare la sua verità come La Verità, ovvero come il problema di cui bisogna discutere. La sua posizione, che è decisa e provocatoria, nel gesto con cui destabilizza la discussione, se ne autoesclude irrimediabilmente. Nessuno ascolta ciò che dice un personaggio che si sceglie un ruolo del genere, perché il suo ruolo finisce con la sua pars destruens.
Per intenderci, sarebbe un po’ come leggere gli articoli di Marco Travaglio non per il loro valore di denuncia ma per quello che propongono, per l’opinione che veicolano. Ai suoi lettori non importa cosa pensi Marco Travaglio di un determinato problema, non è per questo che lo seguono.
L’autorità del profeta finisce quando inizia a pro-porre. La sua rivelazione è la denuncia dei limiti altrui. La sua verità è una verità negativa: lui sa cosa non è vero. Esso riformula il linguaggio e dunque si ammanta di un’autorità che nasce dalla capacità di far implicitamente credere – criticando il metodo anziché il merito della discussione – che la sua opinione sia una constatazione di fatto.
E tuttavia, alienando da sé, e dagli ascoltatori, la discussione, e disvelandone la corruzione, il profeta si distanzia inevitabilmente dalle regole, si riconosce e identifica ineludibilmente come minoranza, trasgressione. Non ha la forza per controproporre altre regole, per legiferare. La rivoluzione che conduce è la fine del regime linguistico precedente, ma al suo stesso moto sovversivo il profeta non sopravvive. Non appena finirà di far vibrare il tono millenaristico con cui la falla nel sistema sarà stata aperta, ciò che seguirà sarà solo un ronzio indistinto e noioso, un tentativo stentato di farsi carico di qualcosa che non lo riguarda, che non lo ha mai riguardato, che non lo riguarderà mai. A meno che non scelga di trasformarsi, di cambiare ruolo, di perdere il dono della purificazione.
Il nostro personaggio regalerà agli ascoltatori l’euforia dell’indignazione, e ciò gli frutterà simpatia e gratitudine, ma anche, inevitabilmente, diffidenza. Di quella rivoluzione estemporanea e fratturante, lo spettatore serberà un ricordo esteticamente positivo (se ne ricorderà), ma senza fidarsi.
Per aver denunciato la presunta falsità di un sistema, il profeta, autoincoronatosi Autorità, sarà come un magistrato speciale, un commissario incaricato di garantire la transizione da un registro semantico a un altro. Ma non starà a lui scrivere le regole della nuova discussione, poiché, come la piú agguerrita delle api, dopo aver inflitto il suo pungiglione nel corpo estraneo e orrendo dell’altro da sé, non gli resterà che l’agrodolce sapore della fine.

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