lunedì 25 febbraio 2013

Mitologie urbane. Il mito dell’Evento


Tommaso Matano

Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau.


La giovane studentessa intrappolata nel traffico mentre tenta di andare a lezione fotografa con il proprio smartphone la nebbia al di là del suo finestrino, caricando l’immagine su Facebook con la didascalia “Se il buongiorno si vede dal mattino…”. Sono le 8 e qualche minuto. La città è ancora nel dormiveglia.

Dopo poco arrivano i primi segnali d’apprezzamento. Un temerario si lancia in un commento: “Che ci fai già in piedi?”. Lo smartphone della ragazza si accende come un albero di Natale. Alcuni compagni d’università fanno fioccare i pollici levati del Mi piace, aderiscono al suo gesto pubblico, la sua condivisione.
Nel corso della giornata la nebbia si dirada. Sui social network non compaiono altre testimonianze del maltempo.

Passano le ore.

Quella stessa sera, la ragazza, insieme a molti amici, si reca presso un locale dove si svolge, con cadenza settimanale, una serata a tema. La sua partecipazione era già stata confermata, sempre tramite Facebook, con una lapidaria risposta (Parteciperò) a un Invito all’Evento formulato da un suo conoscente.

Alla festa la ragazza incontra molte persone di sua conoscenza con le quali si intrattiene, seppur distrattamente. Scatta di nuovo una fotografia, sempre con il suo smartphone, ma stavolta all’insegna del locale in cui si svolge la serata. Condivide la fotografia su Facebook, aggiungendo le persone con cui si trova e il luogo. Dopo aver reso pubblica la sua collocazione spazio-temporale, la ragazza si lascia coinvolgere dagli astanti, senza negare una sbirciatina allo smartphone che vibra ogniqualvolta qualcuno, dal proprio computer, o dal proprio telefono, clicca Mi piace in riferimento alla sua foto. Raggiunto un sufficiente grado d’approvazione del contesto sociale, cioè soddisfatte le aspettative degli amici (grazie al conseguimento di molti like), la ragazza è pronta a dedicarsi alla festa. La sua ansia da prestazione sociale è svanita.

Il giorno dopo la sua pagina Facebook testimonierà fedelmente che la ragazza ha partecipato all’evento. Vi saranno fotografie che la ritraggono, e persone che ne discutono.
Disciplinato, perfetto esemplare, ligio alle regole e proporzionato al contesto, la ragazza, con il gesto oblativo della condivisione, avrà finalmente svolto il suo dovere. La sua partecipazione sarà stata sensata soltanto nel momento in cui, nel prender parte all’evento, avrà reso partecipi anche gli altri utenti. Soltanto, cioè, se non avrà tradito le aspettative degli spettatori.

Ora vorremmo tentare di capire quale sia la differenza tra l’esperienza di quella fotografia scattata in solitudine ed esposta nella vetrina di una dimensione pubblica (il vissuto personale di una mattinata di nebbia), e il coinvolgimento in un accadimento collettivo.

In cosa divergono queste due dimensioni dell’intersoggettività virtuale?

Innanzitutto l’evento ci preesiste, e in qualche misura ci trascende. L’evento c’è indipendentemente dalla nostra individualità. L’evento, in quanto fenomeno collettivo, si dà in modo necessario e universale, quasi svincolato dalla volontà dei singoli. All’evento si può partecipare oppure no, esso dipende da noi solo indirettamente. Notiamo per inciso che perfino l’organizzatore è in qualche modo libero dal peso dell’istituzione dell’evento, che lo oltrepassa e sembra vivere di vita propria.

Mentre il vissuto personale viene alla presenza a partire dal nostro agire, l’evento in quanto fatto storico accade. La nostra foto del traffico ci fa alzare la voce per un attimo nel viavai delle informazioni della piazza virtuale; la nostra partecipazione all’evento secondo i dettami che il medium richiede è invece un gesto d’assenso, non di iniziativa.
È il dire sí a qualcosa che il contesto pretende, è il prender parte alla storia, essere presenti all’avvento di un fatto.

Il fenomeno della mattinata nebbiosa è creato dall’azione positiva di caricare la fotografia su Facebook e colorato dall’assiologia del commento che la accompagna. È un fatto che nella dimensione pubblica non esiste indipendentemente dal gesto che lo rende manifesto. Non si tratta di una notizia. È un vissuto, un insieme di percezioni e considerazioni, il grigio del cielo, il nervosismo causato dal traffico, la frenesia della mattina, la prospettiva amara di una lunga giornata, il tutto condensato in icona e offerto allo sguardo altrui.

L’evento invece si caratterizza per la somma dei vissuti che vivono al suo interno, e che non sono autonomi, perché dipendono dall’evento stesso. Il fatto è che l’immagine che noi tutti abbiamo dell’infrangersi dei due aerei contro le Torri Gemelle, l’undici settembre del 2001, si è strutturato come ricordo evenemenziale in quanto la storicità dell’accaduto è stata garantita dalla dimensione pubblica globale del fatto.

Un evento è tale quando gli viene dedicata attenzione da un mondo di persone.

I social network hanno il potere di riorganizzare questa esperienza, un tempo ottenuta solo grazie all’elaborazione collettiva dei grandi mezzi d’informazione.

I social network permettono di storicizzare, in piccolo, la festa cui siamo stati ieri sera. Lo fanno offrendoci la possibilità di condividere con gli altri la testimonianza dell’accaduto. Non solo: i social network (e gli smartphone) ci dicono che l’evento è testimoniabile in tempo reale, cioè che nell’attimo in cui si compie, l’accadimento è già storia. È già ripercorribile, riproducibile, rivisitabile, falsificabile. Il qui ed ora è già foto su Facebook, è già lí e sempre.

La ragazza che torna a casa dalla festa sa che a differenza del suo ricordo della mattina uggiosa, che pure Facebook le ha permesso di rendere pubblico, il suo vissuto della festa si inserirà in una rete elaborativa interconnessa e collettiva. Il suo vissuto della festa perderà cioè qualunque connotazione di suo vissuto per essere l’evento festa. E cosí anche la sua elaborazione del ricordo sarà necessariamente influenzata da questa modalità condivisa di discuterne, di ritrovarsi, di riconoscersi. Darà rilevanza a dei particolari emersi attraverso il confronto con gli altri, valuterà diversamente certi aspetti.

Questo è un fenomeno che avviene spesso quando siamo in contesti di compartecipazione, ad esempio quando vediamo un film insieme ad altre persone. Solitamente, lo si voglia o no, il giudizio degli altri influenza un po’ anche il nostro, direttamente o antiteticamente, perché la discussione sul film impone una presa di posizione dialettica che la visione in solitudine non richiede. Con l’elaborazione collettiva dell’evento sui social network, questa realtà viene iperbolizzata, sia dall’enormità della partecipazione alla “discussione”, sia dalla vaghezza dei termini del discutere. Un commento, due parole, un like: non è necessaria una vera argomentazione. In fondo, è sempre di Facebook che si sta parlando.

La partecipazione all’evento, in ultima analisi, ci garantirà l’appagamento di un riconoscimento. Nel prender parte ci scopriremo parte di qualcosa di grande, condiviso, pregresso, e in quanto testimoniabile e storicizzabile, in qualche modo sempiterno.

Nell’esservi ci identificheremo, ci conteremo, ci daremo un nome, un senso.

Sapremo di cosa si starà parlando quando se ne parlerà, ci chiederemo a vicenda se ricordiamo una circostanza piuttosto che un’altra. Ripercorreremo le dinamiche e i vissuti dell’evento, lo faremo per consolidarne la memoria, per evitarne l’oblio, lo faremo perché servirà per sentirci integri e integrati. Lo faremo per darci un volto, per sentirci parte della comunità che attraverso l’evento sarà inaugurata, o che attraverso l’evento (è il caso degli appuntamenti con cadenza ripetuta) sarà rinnovata.

Lo faremo per decidere di aver vissuto ciò che si dirà che sia accaduto.

Parteciperemo alla festa per darci la responsabilità di raccontarla.

Nel costruire la storia pubblica su ciò che è avvenuto, saremo anche noi autori, forse inconsapevoli, della mitologia dell’evento.





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