giovedì 17 gennaio 2013

Mitologie urbane. Il mito dell’efficienza

Tommaso Matano

Mitologie urbane è un osservatorio sugli schemi narrativi che organizzano la nostra esistenza, e in particolare sui “racconti sociali” che attraversano lo spazio della città. In collaborazione con Il Bureau

“Non possiamo quindi esperire veramente il nostro rapporto con l’essenza della tecnica finché ci limitiamo a rappresentarci la tecnicità e a praticarla, a rassegnarci ad essa o a fuggirla. Restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa, sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza.”
Martin Heidegger, La questione della tecnica 

Cominciamo dai dati, anche se Wilfrid Sellars avrebbe qualcosa da ridire in proposito (è sua la formula “il mito del dato” in Empirismo e filosofia della mente).
I dati ci dicono che il mercato dell’e-commerce in Europa è in forte ascesa. L’Italia, anche grazie allo sviluppo di Amazon.it, ha visto lo shopping online crescere nel 2011 del 32%. (Si è parlato recentemente di Amazon.it in una puntata di Report, che ha sollevato dubbi sulla liceità della politica fiscale della società).
Si stima che entro il 2015 il 50% della popolazione europea effettuerà acquisti online. I settori che fatturano di piú sono il tempo libero (perlopiú il gioco d’azzardo) e il turismo.
L’e-commerce permette al produttore di vendere direttamente al consumatore, offrendo fra l’altro prezzi piú vantaggiosi, nonostante la spesa per la spedizione del prodotto. Gli studi sul couch commerce (acquisto online “dal divano”, cioè nel tempo libero) dimostrano come l’e-commerce si stia progressivamente sostituendo allo shopping vecchia maniera: si acquistano su internet non solo prodotti rari o specifici, ma perfino la spesa alimentare.
I rivenditori online, cosí, fronteggiano brillantemente la crisi, divenendo motore economico e creando posti di lavoro.
La rapidità, la comodità e l’immediatezza del servizio sembrerebbero irresistibili.

Ma laddove l’e-commerce incrementa, altrove sottrae
Si potrebbe identificare una linea di continuità in quel processo che colpisce i piccoli esercizi commerciali, prima gettati in pasto alla globalizzazione e alla grande industria, e ora anche al mercato online.
Le città hanno rinunciato da tempo e progressivamente alla loro dimensione commensurabile, fatta di pratiche comuni e interazioni sociali consolidate, nel nome della forza trascinante dell’ipermercato, della grande libreria, del centro commerciale.
Cosa cambia quando le abitudini della spesa ci portano verso un luogo che non è piú fisico?
Cosa succede a una città che non ha piú bisogno di negozi? 

Per le sue modalità, l’acquisto online si appella a un metodo che esige il massimo del rigore. 
La lista della spesa, da supporto mnemonico, diviene ordine vincolante.
Comprare su internet richiede di progettare con precisione cosa si vuole acquistare: c’è pochissimo spazio per lasciarsi suggestionare dal girovagare all’interno dell’esercizio commerciale (uno spazio ancora preservato dall’advertising e dai consigli intelligenti per gli acquisti che fanno capolino sui siti internet).
In linea con il principio d’economia che genericamente accompagna l’utilizzo della tecnologia, anche l’e-commerce, come fa il navigatore satellitare che indica il percorso da seguire senza perdite di tempo, pretende da noi la precisione per darci in cambio l’efficienza.  

Immediatezza e accessibilità delle merci acquistabili, risorse enormi, fra l’altro, per i diversamente abili, veicolano un importante aspetto estetico, inerente il nostro modo di fare esperienza: l’e-commerce chiama in causa la nostra immaginazione. Ogni volta che stiamo per comprare un prodotto ci è richiesto di figurarci, aiutati da fotografie e informazioni, di cosa si tratti. Lo spessore di un libro lo deduciamo dal numero di pagine, la comodità di un articolo d’abbigliamento da una serie di ipotesi complesse e sommarie svolte a partire da alcuni dati.
Comprare qualcosa che non possiamo percepire ci richiede di rappresentarcelo.
E questo, in un processo di accomodamento alle nostre esigenze, è un rischio.
Noi acquistiamo (e la cosa richiederebbe di avere ben in mente ciò che vogliamo) quel che ancora non conosciamo.
Il sistema automatico può non commettere errori, ma le nostre simulazioni?

Di piú, l’e-commerce trasforma l’esperienza dell’acquisto in un processo attuabile da casa. Questa osservazione, in tutta la sua lapalissiana banalità, ha un corollario: nel tessuto urbano, le zone commerciali perdono la propria sensatezza.

Attraverso il web, il negozio si colloca ovunque e sempre. Uno smartphone è in grado di compiere acquisti dalla cima di una montagna o dalla battigia di una spiaggia, di giorno o di notte. 
Lo shopping online, in altre parole, diviene un servizio continuamente a nostra disposizione, che non risponde piú ad alcune semplici regole come la provenienza e la disponibilità di certe merci o l’orario di apertura del distributore. Per rendersi massimamente fruibile dall’uomo, il servizio si dis-umanizza, inizia a funzionare come se al fondo il suo sostrato non fosse il lavoro e l’ambiente umano ma un dispositivo autoalimentato, onnipresente e anonimo.
Il meccanismo della compravendita si meccanicizza per rendersi impiegabile con la massima facilità, allontanandosi dalla corporeità della poiesis, il processo della produzione che sta alla sua origine. Cosí, spogliato della sua macchinosità, il meccanismo diviene capace di orientare la topografia della città tanto da ridimensionare il significato dei luoghi fisici in cui avviene il commercio, cioè quei luoghi che delle città sono stati motori propulsivi. 
In questa eterea trascendenza offerta dalla rete, rimane lo scoglio della consegna, il fatto che la merce sia ancora un prodotto fisico da recapitarsi, ma gli e-book ci insegnano che la metamorfosi anche in questo senso potrebbe raggiungere vette impensate. 

La città, deprivata di una sua componente fondamentale, il mercato, si ri-pro-getta verso nuove direzioni. Se tornasse oggi, Zarathustra forse dovrebbe annunciare la morte di Dio attraverso un fastidioso pop-up pronto a sbucare proprio mentre proviamo a comprare un libro (magari di Nietzsche) su internet. Oppure, meglio, nei centoquaranta caratteri di Twitter. 

Lo shopping online ci sgrava dal peso di recarci ad acquistare i prodotti.
Ma chi sceglie le verdure che ci vengono recapitate a casa? A chi deleghiamo questa responsabilità? Non al commerciante di fiducia, ma al sistema, a un anonimo meccanismo nel quale, a un certo punto della catena di montaggio, qualcuno seleziona il cibo che mangeremo e che abbiamo scelto perentoriamente, comunicandolo non attraverso una richiesta, o una domanda, ma per mezzo di un ordine. Già siamo nel lessico della tecnica, già siamo nel modo del dispositivo (l’ordine va eseguito, non esaudito).
Cosí, mentre la metropoli si ingigantisce e si massifica, invitandoci a blindare le porte di casa, anziché a lasciarle aperte, in questo clima di tendenziale e crescente diffidenza verso l’altro da sé, noi ci fidiamo del sistema, del marchingegno automatico cui demandiamo addirittura la scelta del cibo che mangeremo. E questo, forse, perché percepiamo quel processo come meccanico, come se dietro non ci fossero delle persone. Ci affidiamo alla spesa online perché pensiamo che sia autoprodotta, che non siano degli sconosciuti a scegliere il cibo per noi ma una macchina progettata apposta per questo.
Negli umani riponiamo meno fiducia che negli strumenti che essi producono, perché gli strumenti sono infallibili. La stessa dicitura “errore umano” è un pleonasmo: l’errore è sempre umano. 

Cosa succede a una città, quando la sua stessa intelligenza ne mette a rischio alcune strutture fondamentali? 

Cosa accade quando ci ravvediamo dall’euforica ebbrezza in cui ci getta la tecnologia?

Ai postumi l’ardua sentenza.

Oggi, intanto, a cinquant’anni dalla conferenza di Monaco in cui Heidegger poneva la celebre questione della tecnica, l’esigenza di pensare il progresso, anziché limitarsi a viverlo, sembrerebbe reclamare la sua attualità.

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